Australienazioni #1. Di quella volta che andai a vedere i Kvelertak a Brisbane, e invece.

AUSTRALIENAZIONI  parla di me, che vivo nella terra del domani, nel paradiso realizzato, nell’estate permanente di un paese ricco in stipendi e figa – e NON MI DIVERTO. MI SENTO SOLO. NON ESCO. HO NOSTALGIA DI CASA E CASA E’ UN POSTO DEMMERDA CON TASSI DI DISOCCUPAZIONE DA REPUBBLICA DI WEIMAR.

Apro le danze con un articolo già edito, in forma leggermente diversa,qui.

frasi-solitudine

Abito nella Gold Coast, una specie di rotonda dalle dimensioni di una regione, con la spiaggia e i surfisti a dare un volto umano all’urbanistica dissolta – quartieri residenziali, aree verdi, centri commerciali, e strade giganti a unire e dividere gli uni dagli altri – che è il nostro futuro, che è il futuro ovunque. Continuo a chiedermi se ci sia qualcosa di davvero inquietante dentro questo ordine, o se sia soltanto la mia voglia di non adattarmi a guidare le mie lamentele e farmi rimpiangere la città intesa come spazio compresso di case, negozietti, monumenti,cazzi e mazzi. A nord, Brisbane ha una logica più volenterosamente urbana. E’ il bengodi dei miei sogni di coolness e dei miei progetti confusi di vita sociale – che, per me, si assommano in una realtà banalissima: i concerti.

Il 14 Settembre suonano i Kvelertak. Non sono il mio gruppo preferito, ma vale la pena vederli. Io, dentro la mia testa, vivo ancora a Santa Croce Camerina in Provincia Di Ragusa – se nei paraggi viene Roy Paci, c’è almeno un discreto dibattito sulla possibilità residua di andare al concerto. E quindi figurati se faccio lo schizzinoso: che a Brisbein suonino i veneratissimi Capsule, gli apprezzati Rolo Tomassi o i piaciucchiati Kvelertak poco importa: stanno tutti sulla stessa linea, appiattiti dalla fame di concerti di un provincialotto qual io sono. Quindi prendo il treno, pregustando il momento in cui chiamerò mio fratello durante il ritornello del singolone:

Il concerto è alle 20:00, sia benedetta l’Australia per i suoi orari dal volto umano. Ci metto un pochino a trovare il posto, e man mano che mi avvicino lo sciamare di metallari nelle vicinanze s’infittisce – c’è qualcosa che non va in loro, ma non riesco a inquadrare bene il problema. Faccio due passeggiate nei dintorni, valuto l’idea di mangiare e la scarto, mi piazzo davanti al cancello chiuso con un anticipo irrisorio.

Evidentemente (come mi hanno già fatto notare), la puntualità è uncool anche qui: il cancello è chiusissimo, e sembra che la situazione non debba sbloccarsi a breve. Mi siedo un po’, passeggio, mi sincero che l’entrata non sia altrove – spessissimo mi capita di non capire come entrare nei locali. Avrò visto centinaia di gruppi, ma vivo sempre lo spaesamento della prima volta. Non l’eccitazione, o il brivido della scoperta: giusto lo spaesamento. Il cronico attendere, il senso di inadeguatezza.

E sono solo. Qui è buio, c’è un tizio male in arnese seduto su una panchina. Mi mette una certa tristezza, più che inquietudine – dopo un attimo realizzo che sono nella stessa situazione. Andare da soli a un concerto non è come andare soli al cinema: lì il buio e la visione ti schermano dalla necessità delle relazioni umane; i concerti, al contrario, sono pieni di buchi in cui, se non bevi non parli con qualcuno e non hai lo smartphone, ti senti stranissimo. Poi certo, puoi chiacchierare con la gente, fare nuove amicizie. Io non sono il tipo. Quindi rifletto sulla mia solitudine, sul mio girovagare e sedermi e rialzarmi: mi accorgo che la distanza tra il centro della società e i suoi margini puzzolenti è infinitesimale. Basta un passo. Fossi con un’altra persona, tutto andrebbe come si deve. Visto che sono solo, io sono quel tipo che sta seduto sulla panchina, sono il barbone che lecca gli angoli sporchi, sono il pazzo del paese che ciondola con un sorriso ebete. E più faccio caso alla mia situazione più la peggioro, agendo in modi incomprensibili e inquietanti o ridicoli. Un tizio che lavora nelle vicinanze mi apostrofa, un po’ confuso dal mio passargli e ripassargli davanti. Dei ragazzotti che fumano sulla balconata del parcheggio, sopra di me, biascicano qualcosa a tutti i passanti e quando mi vedono sbraitano un paio di FUCK OOOOOFFFFF. Capisco che la mia solitudine trova una collocazione solo se mi siedo ad aspettare alla fermata dell’autobus: in quel contesto tutto prende improvvisamente significato.

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Aspetto e aspetto. Non si vedono metallari in giro. Anche questo si somma al complotto che il sociale sembra tessermi attorno: com’è che tutti sanno cosa fare, come comportarsi, e io no? Finché, a un certo punto, il locale apre. Ma nessuno fa la fila. Decido di chiedere lumi ai tizi che stanno allestendo la biglietteria. “Ma il concerto dei Kvelertak?” “Heavy Metal?”, mi chiede il tizio mimando una chitarra come fece il presidente di commissione alla mia cerimonia di laurea. E a quel punto trovo un senso a tutto. Collego i puntini. Capisco.

Capisco perché così tanti metallari avessero già la maglietta dei Kvelertak alle 19:30.

Capisco perché così tanti metallari andassero in direzione opposta alla mia. Stavano sbagliando strada? Cercavano da mangiare? NO.

Capisco perché i tour bus se ne fossero andati dal posto. Stavano cercando un parcheggio più comodo? NO.

solitude

“Il concerto era oggi pomeriggio alle Cinque. Alle 20:00 finiva. Ora c’è la discoteca”. Ah. Me ne vado con le pive nel sacco, mangio un hot dog e cerco la stazione. Arrivo quaranta minuti prima che arrivi il treno, e – ennesimo fallimento in una serata di fallimenti in una vita di fallimenti – passo i tornelli con tragico anticipo. Per fortuna, al binario non sono solo: una ragazza carina, capelli tinti di blu, mi chiede della mia t-shirt di CorpoC. parliamo un po’: lei è stata al concerto dei Kvelertak (!!!), io le elenco i miei errori e le chiedo del concerto. “Ti racconterò tutto: abbiamo un sacco di tempo prima di arrivare alla Gold Coast!”. Forse, dopotutto, la vita non è una merda.

NON E’ VERO. Passo quei quaranta minuti da solo, andando avanti e indietro lungo il binario. Il tizio della security si insospettisce e comincia a chiedermi cose. Non capisce come mai non prenda nessun treno, e sospetta che io voglia buttarmi di sotto. Quando finalmente prendo il treno e arrivo a Helensvale non ci sono più bus. Tento il colpaccio, per risparmiare i soldi del taxi: vado a Southport sperando di trovare un urbano da lì. Ma sbaglio fermata e scendo fuori paese: devo camminare nello stradone, al buio. Perdo l’ultimo bus e aspetto per mezz’ora un taxi. Un ubriaco mi mostra il culo, un’ubriaca piscia dietro la panchina. La vita è una merda, fanculo alla vita di merda.

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