di Tommaso Capecchi
GENT.MA SUPERFICIALITà
Le molte informazioni che mi erano giunte su quella storia erano state filtrate dalla tv nazionale italiana, pubblica e privata, e da qualche discorso ascoltato da qualcuno o qualcuna. Non ricordo bene chi fossero queste persone, non ricordo bene nemmeno cosa fosse quella storia, quella geografia, quell’ ingorgo vorticoso di tempi e cortocircuiti, adagiati su fatti storici che ci ri-guardano. Adagiati sulle produzioni soddisfatte o meno, che l’ Occidente mondiale in senso politico ha saputo ben premeditare, confezionare in buona maniera e lasciare sconfiggere da una natura più semplice.
Gli unici incontri reali e positivi con quelle genti li ebbi poco prima della fine dell’ ultimo secolo, sui pavimenti in mattone di Caorle, sui parquet di scuole e palazzetti sportivi della capitale slovena, Lubiana. A giocare a basket quei ragazzi erano più bravi di noi ed era un’ esperienza estetica vedere quello sport espresso a quel modo. Erano più alti, agili, preparati tecnicamente e i fondamentali individuali e di squadra li conoscevano bene. Noi, che in Toscana riuscimmo a perdere due partite in tre anni, in quelle due settimane inanellammo sette sconfitte. Avevamo le divise di marca “Champion” e ci facemmo schiacciare dai ragazzi con le divise diverse, sbiadite e sdrucite. Eppure fui contento di battere il cinque a quei ragazzi alla fine di ogni gara. Da sportivo perdevo migliorando e da uomo di 15 anni ero felice di aver incontrato quelle libertà da poco stragiate.
Il turista occidentale ha tantissimi motivi per viaggiare: lavoro, relax, studio, salutare qualcuno. Io e la mia compagna Irene non sappiamo perché abbiamo viaggiato in quest’ occasione. Lei forse sì; io ho solo risposto alla sua proposta affermativamente. La Bosnia Herzegovina mi appassionava e la prima cosa a cui ho pensato è stato l’ incrocio di Sarajevo percorso da Maribèl Verdù in 1395 days without red (2011) di Anri Sala. Ho pensato al canto, all’ orchestra nazionale bosniaca, ai passi veloci della delicata bellezza dell’ attrice catalana. Ho pensato al ritmo del film che andava all’ unisono, fra quello del montaggio, del respiro della Verdù e degli archi, fiati e percussioni dei musicisti bosniaci. Lo scorrere di quelle immagini pensate seduto su un letto di una cascina della campagna senese, finirono in un: “Grande Anri Sala…”.
Non mi sforzai troppo di immaginare cosa poteva essere quel Paese. Nei pochi giorni successivi alla partenza ebbi solo l’ occasione di dimenticare una pubblicazione dell’ Ambasciata Bosniaca in Italia su Sarajevo in un ufficio nel quale in quel periodo lavoravo. Avevamo deciso di affrontare il viaggio in auto, senza troppe preoccupazioni.
BIH 2013-2014
Abbiamo lasciato l’ Italia passando da Trieste la mattina del 30 Dicembre. Trieste è una città che si è fermata a pensare. Trieste è una città che non latita la sua storia e gode sulla tradizione. Solitamente è il mare che fa vivere le città; nel caso di Trieste è il contrario. La sera di quello stesso giorno siamo arrivati a Mostar, dopo aver attraversato con una sola fermata una Croazia ventosa e che con quel viaggio non c’ entrava un granché. Una croce grande quanto infausta che reggeva un Cristo in cemento, dominava la vallata su cui sedeva assonnato l’ abitato. Anche quel Cristo su quella croce non c’ entrava un granché e ancora meno su quella vallata. Ho pensato a Lisbona, ma anche questa con Mostar non c’ entrava un granché.
Tutto ciò che avevo esperito prima di quello spazio popolato, sembrava non entrarci un granché. Decidemmo di passare la notte in un piccolo Motel, dove ci chiesero soltanto 30 €, colazione esclusa. Il Motel era serio e ben tenuto, con la tv che riusciva a trasmettere Rai 1, o Rai 1 che trasmetteva un servizio su Francesco Guccini. Quella sera stessa e l’ indomani girammo per le strade della cittadina pensando soltanto a cosa poteva essere stata quella guerra. Era la città stessa che continuamente raccontava quei fatti, fra buchi nei muri, finestre rotte, porte spaccate, tetti franati e lievi e timorosi strascichi di vita nelle strade. Potrebbe essere che in quei posti non si va se non abbiamo studiato la storia di quella guerra, e che andarci per vedere cosa c’è adesso è solo un gioco stupido per riempire gli occhi e i racconti da fare agli amici al ritorno. Credo che però nessun viaggio abbia inizio e fine e che il viaggio a dire il vero, non sappiamo bene cosa sia. Credo che il morso continuo e a tratti lancinante che lasciavano quei muri e quelle strade, abbia bisogno di essere conosciuto più o meno bene; quei posti hanno il bisogno di essere camminati ed io avevo il bisogno di essere respirato da loro per comprendere un mondo appena lasciato ma non ancora finito, quello del Novecento e dei suoi fatti storici.
Due cose vorrei chiedere a Mostar: “lascia ancora quelle palazzine mitragliate e inabitate fra le tue strade perché non appartengono solo a te e ai tuoi popoli ma sono i segni mondiali della violenza del Novecento o forse il suo stesso racconto; lascia ancora quella cassetta di plastica rossa con sopra scacchiera e scacchi, serviranno a qualche incontro che sappia di gioco e intelligenza e dia certezza ad una relazione che costruisca identità diverse nella comunità pacifica del mondo”.
Mostar è una cittadina che ancora dorme sulla voragine che ha lasciato il Novecento, il secolo che ha visto l’ arrivo e la scomparsa di narrazioni trattate con potere inumano e involutivo. Mostar è una città ora calma, serena e appena nuovamente nata e che sembra assaporare con fastidio l’ unica ideologia che, indorata di luccichii effimeri, striscia e serpeggia fra le relazioni dell’essere e le cose.
Mostar è un crocifisso di cemento con un Cristo che non ha voglia di starci sopra. Arrivammo il 31 sera a Sarajevo, passando fra le gole dei monti e accompagnati da un fiume con un’ acqua sempre uguale, quella dei fiumi senza schiume chimiche. Sarajevo ci dette il benvenuto con uno stradone a sei corsie, due binari e uno stormo di corvi che non mi fecero pensare a Van Gogh. Penso a questa città e vedo nebbia, grandi prati imbullettati da stecchi bianchi e un bimbo che mi randella il monetino perché di poco valore. Ce lo chiedeva insistentemente e glielo demmo per sbrigarselo di torno. Se alzavo gli occhi a Sarajevo vedevo due pendii fitti di capanne e case senza fondamenta, le sottili linee dei minareti e un sole che c’era ma non voleva farsi vedere.
Di questa città ricordavo la vicenda della Biblioteca Nazionale e di una ragazzina, la “nostra” Miss Sarajevo, rinchiusa là dentro. Ricordavo soprattutto che le persone si accorsero cosa era stato colpito dalle bombe notando la cenere che cadeva dal cielo: l’ annientamento dell’ identità era stato compiuto. Ma la poesia fu ed era ancora possibile.
Sarajevo è una città calma e che ancora, come Mostar, aspetta il risveglio. I cittadini con poche auto, vivono una tranquillità quasi ovattata che ha un vettore di massima verticalità; il loro futuro andare sembra voglia solo captare la parte ascendente di una parabola. Qua il caffè non si può prendere al bancone ma solo stando seduti e nei locali è possibile fumare. I cittadini di Sarajevo, sebben affezionati al clacson, per le strade camminano placidi, si prendono il tempo per pregare e lavarsi i piedi, riescono ancora ad accoccolarsi con la nostalgia di Tito e a parlare poco l’ inglese anche se molte emittenti televisive comunicano in quella lingua.
I cittadini di Sarajevo, alle 23:55 della notte del 31 Dicembre, mi ricordarono con un petardo lanciato accanto al vetro del bar dove ero seduto che era meglio non dormire e che alcuni rimasugli di odio ancora rimangono, data la scazzottata di lì a poco iniziata. Se da piccolo per la notte del 31 mi ritrovavo con fratelli ed amici a raccattare i cocci dei piatti rotti, quest’ anno ho raccattato gli occhiali divisi in due del più giovane dei proprietari. Non mi fece impressione la scazzottata, quanto l’ assenza di preliminari ad essa. Eppure altri fugaci comparse ci rassicurarono che quel mondo lì era altro dalla guerra vista in tv e dai cimiteri a cielo aperto che di volta in volta squarciavano gli spazi di pietre e cemento. Ho trovato una realtà dove è ancora forte l’ importanza delle radici alla terra e del sapere contadino. Sono stato in una comunità disgregata ma al contempo capace di vivere le relazioni fino in fondo, con i moltissimi filtri dell’emotività umana e con le ferite ancora aperte.
Il vino di questa terra ha una forte struttura, intenso e in bocca si presenta con approccio leggermente aspro e coriaceo. Il vino del posto, come natura vuole, è come le persone che vi abitano.
Le architetture moderne di Sarajevo hanno un sapore caustico, brutte forme e mal messe nello spazio. Le architetture comuniste di Tito conoscono la loro storia e al di là della freddezza che emanano, possono solo essere considerate come segni di un passato che ha inciso in identità che fremevano per altre espressioni. A Sarajevo il Museo di Storia non ha il riscaldamento e non ha opere che parlano della Bosnia Herzegovina ma solo della guerra del ‘93 e della ricostruzione. Prima di ripartire per Spalato dove avremmo preso la nave che ci avrebbe riportato ad Ancona, riuscimmo a vedere una mostra fotografica alla Galerija 11/07/95 in Trg fra Grge Martica 2, su ciò che accadde a Srebrenica. Quelle foto accusavano nuovamente l’omuncolo viaggiante come me che quella guerra è la storia dell’ Occidente intero: dei soldati O.N.U. olandesi che maltrattano le donne, il presidente Bill Clinton che inaugura il cimitero delle fosse comuni, dell’ orgoglio di Milosevic che si riprenderà la rivincita sui musulmani, dei generi maschio e femmina ancora una volta separati nella morte.
Pensare a quella guerra adesso, per la Bosnia e l’ Occidente intero, è come il pane per gli affamati.
C’è un’ asprezza in tutte le cose che è forse una caratteristica identitaria e, non solo per questo, vera. Come le carezze ai capelli della coppia musulmana che ci accolse nella loro piccola abitazione. Come la rabbia del bimbo che mi lanciò il monetino. Aveva ragione lui e del suo carattere, ne hanno bisogno chi fa la guerra.