Su due città e uno spazio
Di Tommaso Capecchi
In questi giorni sto frequentando due città, per due motivi diversi. Le città sono: Arezzo e Prato. Da Arezzo ci arrivo da Firenze, da Prato anche.
Tutte e due si uniscono alla patria vertebra dell’autosole. Che schifo; se fossi una lepre o sarei adriatica o tirrenica. Ma potrebbe andare peggio, magari non potrei nemmeno arrivare alla spiaggia. Era meglio l’epoca di etruschi o fenici, in caso si fossero incontrati. Ma sono un uomo o presunto tale e quindi, come dice un mio grande maestro di vita: “sono una cosa che fa ridere”; sbaglio, non mi accollo il problema, e continuo a sbagliare. La moltitudine di errori si confonde con intelligenza. O forse è proprio quella.
Arezzo: esco al casello e prima di arrivare al centro abitato incontro una ferrovia morta, con una locomotiva vecchia e vagoni ancora in legno. Sembra roba d’archeologia industriale dei primi del Novecento, ma in realtà non è così. Una delle immagini più viste dalla fotografia americana degli anni ’80 e ’90; luoghi dove la storia passa per caso e racconterà sé stessa per le generazioni future. Numerose generazioni future.
Da quel punto in poi devo scegliere se andare verso la zona industriale o in centro. Vado verso quest’ultimo e trovo solo ragazzini e ragazzine a piedi o in scooter, con zaini, cartelle e tanta ansia. Li assorbo, tanto da immaginarmi un manifesto del Corriere di Arezzo con scritto: “Chiuso il locale x: trovati decine di morti per ansia”.
La città degli affreschi di Piero della Francesca rimane assopita alla vita. Non è sobria, anzi; balbetta continuamente fra l’incertezza di essere stata e questa sua disorganica involuzione. Prato: esco dalla vertebra dal casello che solitamente non è rammentato da isoradio. Calenzano-Sesto F.no. Ci sono ancora una decina di km prima di arrivare a Prato. Dieci km e circa venti autovelox; in una strada, per un tragitto di 500 metri, ne ho contati 8. Ma potrei sbagliarmi.
La città è un agglomerato di grattacieli demodeè al centro, villette monofamiliari d’epoca fascista se continuo sulla stessa strada degli autovelox e un centro storico che è ( ). Sommerso dal vecchio nuovo ma ( ). Non mi riferisco al pulpito di Donatello e a Filippino Lippi. La piazza del duomo di Prato ha una giustezza che non ti aspetti arrivando dal casello. Prato è conosciuta per la moda e per i cinesi. Io ancora non la conosco ma la osservo e arriva a bastarmi. Non è una città Prato; semmai è un posto che non dimentichi. E non capisci la necessità del non dimenticare.
Lo spazio: conosciuto grazie ad un workshop tenuto dal collettivo Spazi Docili agli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Firenze. Il sito è questo:
Lo spazio è il parco Chico Mendes e si trova nel Comune di Campi Bisenzio. Il Parco era chiuso perché allagato e non praticabile. Era allagato perché al di sotto del terreno si trova una falda acquifera. Prima del parco c’era una discarica. Vi si trovavano anche rifiuti tossici. La discarica venne trasformata in parco negli anni ’82-’83. Alzo gli occhi e vedo decollare ed atterrare gli aerei dell’aeroporto di Peretola. Al lato sud est l’occhio rimane disturbato da una grande costruzione; una fabbrica che lavora petrolio. Alla sinistra e alla destra del Parco ci sono due cose; l’autosole e la Firenze Mare. Il Parco ha quattro laghi. Ci sono papere, nutrie, asini e capre. Le ultime due specie sono rinchiuse in recinti. Uno dei laghi si chiama Lago del Riposo. Significa che il visitatore del Parco deve stare fermo, non deve toccare l’acqua. Perché è altamente inquinata. Può andare un po’ più in là, dove non so, ad arrostire un po’ di carne. Ci sono anche i barbecue nel Parco Chico Mendes.
Non ho voluto pubblicare fotografie in questo articolo.