di Tommaso Capecchi
Le due città di ( ) sono la stessa città. Una è sopra e l’altra sotto, una viene prima e l’altra dopo ma convivono insieme. Prima non era così, ora sì.
La prima città viene da lontano e come tutte le cose o le storie che vengono da lontano ci narra tante situazioni, diversi flussi e continui passati che, piano piano arrivano ad oggi, a uno dei tanti giorni di oggi. O più semplicemente ad uno degli oggi che si confonde con ieri se siamo capaci di osservarlo nel suo futuro. Un oggi disorganico nei tempi e nella dimensione chimico-fisica del reale.
Questa città nasce nell’eterotopia di un affresco che ha sede nel suo Palazzo di Governo (o uno di essi), dipinto intorno al 1338 da uno dei fratelli Lorenzetti; Ambrogio, più giovane di Pietro.
Si forma su colli con mattoni d’argilla che la ricompongono con case, torri, grandi palazzi, strade e piazze.
Questa città vive ora nella luce delle cose e dei colori delle persone che camminano nelle strade. Essi lavorano poco preferendo la passione dei momenti e dei progetti e anche per questo, vivono bene o insomma, in quel modo lì. Vivono bene anche perché si rendono semplici e spontanei nell’importare ed esportare relazioni.
Vivono bene perché quando si alzano la mattina prima ridono e poi: si prendono un caffè, si lavano il corpo e tutte quelle cose cha gli va di fare. In questa città ci stanno in tanti, anche gli animali.
Questa prima città ( ) non ha mura, non ha recinti o limiti fisici delineati, costruiti e costituiti. Si vede da Sud da una strada lunga diritta a da Nord da un’altra con molte curve perché ci sono le colline.
Questa città veniva vista da Maurice Denis nel 1921 da prospettive come questa. La città era già Fascista e simile a quella che gli sta sotto.
La vera bellezza di questa città è che di bellezze ce ne sono tante; dentro, fuori, sopra, sotto, omeostatiche e tutte della stessa intensità, dimensioni e verso.
Una di queste è che si dorme bene e lo possiamo fare un po’ dove ci pare.
Ancora più grande e vere sono le relazioni che si compongono in questa città; fisiche, corpose e compagne. La realtà è che queste non hanno memoria statica ma sempre in evoluzione verso registri che contemplano l’unica dimensione della contentezza.
( ) è un bambino su una spiaggia che si è scordato di una Madre e di un Padre e vive l’autonomia del momento.
Nella seconda città ( ) LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
E tutti non sono uguali e tutti non camminano allo stesso modo. Neanche i denti sono uguali. I più fortunati li hanno bianchi. Ma solo perché non sanno quello che fanno o qualcosa di simile che sta scritto nella Bibbia. ( ) è Mariana.
In questa città ( ) gli incontri si fanno solo al di là delle persone, solitamente per un’avere che non dà o per una bipolarità dilagante e devastante che si esprime così: “Farei qualsiasi cosa per te, ma preferisco non vederti”. In questa città il sole brucia troppo, quando piove c’è sempre grandine e come ti siedi per riposarti un pò, non puoi starci troppo perché arrivano i montini che ti obbligano ad alzarti; quelli spazi sono loro o sono dei loro avi, che li hanno costruiti per loro, non per te che “ma chi sei tu per permetterti di riposarti a casa nostra!”. Se per caso riesci a trovare cibo è grazie a loro che non te lo tolgono dalla bocca. Nel cibo c’è sempre troppo sale perché costa poco.
Questa città, che sta sotto all’altra, ha mura intorno, ai davanzali delle case ci sono chiodi per non fare entrare nessuno e alle porte pure.
Se qualcuno di voi volesse vivere nella città ( ) deve mettersi in testa di obbligarsi almeno in queste 4 regole: rendersi totalmente subalterno rispetto a un quadro (dipinto nel Palazzo del Potere nel 1200 circa e ora nascosto nella collezione di un montino famoso), dormire poco e male, fingere sempre il sorriso fuori da casa sua e salutare i muri. In questa città ( ) le persone vivono con legati ai piedi due enormi sacchi di sabbia: in uno c’è scritto NOIA nell’altro c’è scritto VUOTO.
Ma il vettore che fa muovere spazialmente chi ci vive o pensa di esisterci ha direzione opposta a queste due sacche. Il risultato che ne viene fuori è un’ incomprensibile paradosso, ossia un “non-senso” senza la parola “senso”.
Se penso a ( ), m’immagino ad un binario quasi qualsiasi della stazione di SMN che ora è il numero 16 e che porta passeggeri uguali e diversi da quelli che portava sessanta anni fa. E quella è una storia che è stata fatta e ne esiste un’altra che ancora si ha da fare e non capisco ancora bene il motivo, ammesso che la storia abbia senso o bisogno di motivi. Invece sì che la storia ha bisogno di motivi o meglio, di necessità, nel momento in cui chi si pone domande e dubbi di fronte al mondo diventa deliberante e non più delegante.
Questa città si diverte non perché esiste vita divertente, ma si diverte solo perché ridere è sempre più piacevole che essere contenti sempre; si diverte perché è meglio così e non c’è da pensarci troppo.
Però, fra le due città ( ), quella che sta sopra delibera e quella che sta sotto delega.
Fra le due città ( ), ci si diverte in due modi di-versi. La prima è libera, l’altra si costringe alla rima. Come le formiche, che stanno in fila a costruire una loro casa, la seconda ( ) è legata a sé, mentre l’altra no. L’altra non si lega ma ci sfiora e per via esponenziale aumenta la consapevolezza del luogo e della cura del sé.