Kronake dal Kurdistan

Kronake dal Kurdistan


Meglio un buon nome al profumo.
E meglio il giorno della morte a quello della nascita.
Meglio entrare in una casa in lutto,
che in una dove si festeggia.
Perché lì c’è la fine dell’Uomo,
e questo porta alla riflessione.

da QOHELET (7: 1-2). Traduzione di Michele Barbaro

Il primo contatto con la cultura curda l’ho avuto da bambino, nel periodo in cui si richiedeva la liberazione di Abdullah Öcalan e allo stesso tempo nel mio paese si appendevano volantini di sostegno ad Antonella Ruggiero per il festival di Sanremo. Mi capitò di vedere al cinema il film “Lavagne”, che parla di un maestro che gira con la propria lavagna sulle spalle, alla ricerca di allievi nelle lande desolate tra Iran e Iraq, dove nessuno sa leggere né scrivere. Nei pochi sprazzi di fili d’erba che spuntano tra le rocce degli altipiani in cui sono stato, molto simili a quelli del film per quello che mi ricordo, la gente si siede a chiacchierare con copricapi scuri sotto al sole cocente. Ragazzini portano pecore o mucche al pascolo, un uomo prega in un campo davanti a una strada lunghissima che sembra condurre al niente.

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Il primo curdo in carne ed ossa che incontro fa il cameriere in un albergo. È biondo e scuro di carnagione, un bel ragazzo. Gli mostriamo un meme trovato a caso su internet di cui non capiamo il significato, lui cerca di spiegarcelo: significa più o meno “Keep calm e Dio benedica il Kurdistan”. Mostra approvazione, sorride e si batte la mano sul petto: “Io sono curdo”, dice emozionato.

Öcalan, leggo su wikipedia, è nato vicino ad Halfeti, nella provincia di Şanlıurfa. Siamo rimasti tutti abbacinati dal report di Zerocalcare a Kobane. Şanlıurfa è la città dove la sua carovana atterra prima di proseguire verso il confine con la Siria. Halfeti è invece un piccolo villaggio mezzo sommerso dalle acque di una diga dell’Eufrate. Questo qua:

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A Şanlıurfa sono stato per motivi assolutamente indipendenti dalla passione per la cultura curda. È una città strana per un corso di una settimana su Erasmus+: piuttosto conservatrice, ha quasi due milioni di abitanti e ci sono solo due bar che servono alcolici in centro, uno di fianco all’altro. Dentro è pieno di uomini che fumano, mangiano yogurt e bevono rakı.

In centro molti uomini passeggiano a coppie o in tre, mentre nelle donne si può notare tutta la varietà possibile di velature (che io non conosco, ma per intendersi: dall’assenza totale a un po’ di tutti questi tranne il burqa). Il colore tipico della città è il viola scuro, quindi moltissime donne ne sono velate. La sera una piazzetta è recintata dai nastri gialli di una scena del crimine, con tanta polizia intorno. Per il resto, sembra piuttosto tranquilla.

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Il presidente dell’associazione che ci ospita, così come la maggior parte della popolazione locale, è curdo e non parla una parola di inglese. 

Siamo invitati a partecipare alle celebrazioni per la festa della donna in un campo profughi siriano. Si sentono stime diverse sul numero dei rifugiati in terra turca, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) sono 1,5 milioni.

All’evento partecipa la moglie di Erdogan e altri ministri del governo turco. * dice che a giugno ci saranno le elezioni per la presidenza. Erdogan farà come Putin: dopo dodici anni sta per lasciare l’incarico di primo ministro a una sua marionetta per poter farsi eleggere presidente, e rimanere così in carica per altri sette anni. Nonostante una discussione in cui prevale l’interesse per toccare con mano una situazione che sentiamo raccontata solo dai giornali, decidiamo di non condividere l’ingresso nel campo profughi con le personalità dell’attuale governo.

Sulla strada passiamo davanti al campo profughi; ospita 35000 persone ed è quell’enorme serie di tende bianche che si vedono in lontananza:

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All’università di Harran a Birecik parlo con tre ragazze, studiano pubbliche relazioni e amano film horror americani. Verso il confine con la Siria, visitiamo il tempio più antico del mondo. Su quelle stesse colline abitavano gli Ittiti.

Tra le mie innumerevoli paranoie nasce anche quella delle mine anti-uomo, che in quella zona credo siano solo frutto della mia immaginazione. Non c’è tempo né modo di approfondire. Parecchi sono i mezzi militari presenti, con posti di blocco armati di kalashnikov. Mi sembra di capire che il pericolo principale nella zona di confine sia il traffico di armi, quasi indisturbato.

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Tornato a Milano ho visitato l’ossario della cappella di San Bernardino alle Ossa. È un po’ un off topic, non c’entra un cazzo. Ho sempre pensato che la cultura più interessante per me fosse la mia. Ce l’ho sempre avuta sotto gli occhi, posso comprenderla un poco più a fondo di un estraneo. Estraniarsi fa bene, rende le cose più semplici e oggettive. Ma proprio per questo il discorso è più scientifico, meno passionale. Prendo coscienza della morte per la mia cultura. La stessa è raffigurata su un anello, l’anello di un personaggio molto particolare. Ha una collezione di trentasei chitarre appese al muro di casa sua, e non ne sa suonare neanche una. È grasso, curioso, suscita ilarità. Sull’anello c’è una morte in motocicletta. L’anello era di suo nonno, proviene da Ferrara; ne sono state fatte solo cinque copie. “Un giorno capirai perché ti ho dato quest’anello”, gli disse suo nonno. “E non sei curioso?”, gli chiedo. Mi risponde: “Ho le carte, potrei farmi dire chi l’ha fabbricato e perché”. “Perché non lo fai?”, ribatto. Si sporge sul tavolo, mi fissa negli occhi come sbigottito. “Non venderei quest’anello nemmeno per trentacinque mila euro”. Fa una pausa. “Ma non voglio saperne nulla. Un giorno capirò”.

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