di Martino Cappai

Porto di Yokohama, fine XIX secolo.
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Giappone,
Kanagawa, Kawasaki, Takatsu.
Anno domini 2016,
12 Luglio.
Sono le 22:38, l’estate giapponese è una sauna continua, devastante! L’umidità al 300% ti toglie completamente il sonno, le energie, i riflessi. Ti svuota i muscoli, ti rende un cefalopode. Le mie uniche compagnie sono queste stupide zanzare che ormai hanno smesso di pungermi e mi ripagano con un po’ di ronzii sullo schermo del PC. Poi c’è la piccola abat-jour di Kanami, una 8 watt sferica in vetro bianco, dotata di tanti piccoli fori a forma di stelline che vanno a proiettare una debole galassia sul muro e sul tatami. “L’universo dentro una stanza”, giusto per ricordarmi che sono un granello di nulla nell’infinito del cosmo.
In lontananza, dalla finestra, si può scorgere il porto di Yokohama. Un enorme labirinto di banchine, moli, darsene, insenature e cantieri. E’ lui l’enorme motore portuale del Giappone. In esso vi confluiscono le portentose arterie navali che collegano la vecchia Cipango ai lidi di tutto il globo: Marsiglia, San Francisco, Vladivostok, Cape Town, Amburgo, Lima, Instanbul, Giacarta e via discorrendo… Il gigante Yokohama non conosce riposo, se ne sta sdraiato di fronte alla Penisola di Bōsō, questo mega porto è come un gigantesco cuore pulsante affetto da una strana forma di tachicardia risalente ai tempi delle incursioni del Commodoro Perry, quest’ultimo apparso per la prima volta con le sue Navi Nere (黒船 Kuro Fune) il 14 luglio del 1853. Il suo obiettivo era quello di costringere il governo nipponico ad aprire le proprie frontiere al mercato statunitense, per avviare anche in Giappone quel processo di omologazione ai diktat economici della grande finanza occidentale, il tutto sotto la minaccia di un bombardamento navale al grido di “o con noi o contro di noi“.
A proposito di alte temperature e di americani, mi sembra giusto ricordare che proprio qui nel Quarantacinque, dove ora sorgono questi avanguardistici palazzi tenuti freschi dall’aria condizionata, c’è stato un vero e proprio inferno a cielo aperto, i B-29 yankees ci andarono giù pesante, altro che Berlino! Quel demonio di Curtis LeMay preparò l’aperitivo all’atomica. Ossia ebbe la brillante idea di utilizzare per la prima volta le bombe incendiarie sui civili, quello che più comunemente conosciamo col nome di NAPALM. Il “piscio del diavolo”, come lo chiamava qualcuno, si riversò alla cieca sulle case dei mercanti, dei pescatori e dei contadini costruite principalmente in carta e legno di hinoki. Tutta l’area a Sud-Est di Tokyo divenne un enorme altoforno a cielo aperto, la reggia di Abaddon, un enorme girone dantesco di cadaveri carbonizzati e demoni danzanti. La dieta LeMay era composta da una prima dose di 47.700 tonnellate di bombe per il mese di luglio, andando a crescere nei mesi successivi sino ad arrivare ad un massimo di 115.000 tonnellate e mantendo questo regime sino alla fine della guerra.
Mi chiedo dove stia ora l’anima dannata del Generale LeMay, dato che per mostri come lui non c’è stata alcuna Norimberga, mi auguro che Dio se ne sia fatto carico restituendogli il brodo caldo e la pentola rovente per il solo fatto di non aver rispettato i morti, per aver continuato a martoriare i cadaveri ad oltranza, per il “Res Sacra Miser” a lui sconosciuto.
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Comunque l’importanza di Yokohama è sopravvissuta all’inferno bellico, passando in poco più di un secolo dall’esportazione della preziosa seta nipponica alle nanotecnologie delle Sony. Tutt’oggi continua ad essere il grande cuore pulsante del Sol Levante, il suo porto affacciato sul Pacifico non smette di lanciare le proprie navi verso le orbite oceaniche, il brulichio di navi cargo di ogni fattura e dimensione è praticamente incessante. Osservando dal lontano quest’immensa area portuale si può notare come le sue forme vengano deformate dai vapori delle ciminiere, dal caldo e soprattutto dall’umidità oceanica.
Ma tornando al mio inferno privato… io e la mia carcassa continuavamo a starcene in mutande e canotta, fermi, impassibili; non un tendine in tensione, non un muscolo fuori posto. Meduse sulla battigia. Alla mia sinistra c’era la vecchia cagna Himè, ma non va considerata come una vera e propria compagnia. Il caldo l’ha praticamente mummificata, sembrava lì lì per tirare le cuoia, aveva la lingua di traverso, sbavava e sbuffava dal naso senza mai aprire un occhio. L’importante era che continuasse a respirare. L’umidità è una brutta bestia, la si combatte con l’immobilità, pregando il vento e risparmiando sudore. Solo gli occhi hanno il permesso di muoversi, questo le lucertole lo sanno bene.
In tutta questa canicola avevo tra le mani una raccolta di poesie del ‘39 di Dylan Thomas, mentre mi trovavo assorto in queste letture la scaletta musicale di YouTube passò un bellissimo album chiamato “Ocean Songs” dei Dirty Three, mi accorsi che il violino distorto di Warren Ellis andava a nozze con le profezie poetiche che stavo leggendo.
Ero talmente preso dalle saette visionarie di D.Thomas che… amici miei… vi giuro… tra afa, zanzare impazzite sullo schermo, dolori alle gambe, sudore, sviolinate elettriche, suggestioni poetiche e stelline sui muri ho visto un’ombra materializzarsi tra la finestra e l’armadio a muro! La prima cosa che il cervello mi ha consigliato è stata: “caro mio quello è il volto di Dio!”, esatto proprio lui: “The Big One”! Era proprio il suo vecchio musone cotonato, lo stesso affrescato da Masaccio nella Trinità di Santa Maria Novella.“E’ fatta – mi son detto tra me e me – il caldo mi ha mandato in cortocircuito la centralina! caro mio, sei trasceso, sei arrivato al satori senza meritartelo”; a quel punto mi alzai, corsi a rinfrescarmi la faccia e a bere un sorso d’acqua, per poi andare a prendere una boccata d’aria in terrazza. Mentre mi trovavo assorto a contemplare l’infinito dell’Oceano Pacifico, i miei pensieri ripiegarono verso le vecchie letture: pensai al dolore degli ultimi giorni del Rimbaud sifilitico. Lo rividi avvolto tra le lenzuola bianche del suo catafalco, il suo ginocchio destro in cancrena avanzata, potevo contare le mosche sul marcio della gamba… era di fronte a me il vecchio Arthur! compagno di croce! Quasi lo toccavo, era lì che delirava tra il caldo torrido del deserto d’Etiopia. Erano immagini nitide, chiare, frame cinematofrafici ingranditi. Potevo sentire persino le sue bestemmie, il suo francese provinciale, gutturale, urlato al cielo da quella barella di stracci e pulci. Era una lettina costruita alla meno peggio da quella manciata di negri, suoi amici, gli stessi che si stavano preoccupando di trasportarlo in spalla per il suo ritorno in Europa. Si davano un gran da fare per farsi largo tra le assolate distese di polvere, sassi, rottami e sterpaglie che coronano il nulla d’Abissinia. Il nulla della via.
«La mia giornata è compiuta; abbandono l’Europa. L’aria marina mi brucerà i polmoni, i climi sperduti mi abbronzeranno. Nuotare, pestare l’erba, cacciare, fumare soprattutto; bere liquori forti come un metallo bollente, – come facevano quei cari antenati intorno ai fuochi. Ritornerò, con membra d’acciaio, con la pelle scura, con lo sguardo furente: dalla mia maschera, mi giudicheranno di razza forte. Avrò dell’oro, sarò ozioso e brutale. Le donne sono piene di cure di questi infermi feroci, che tornano dai paesi caldi. Sarò immischiato negli affari politici. Salvo! Ora sono maledetto, ho orrore per la patria».
Arthur Rimbaud, Una Stagione all’Inferno, 1873.
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