Di Francesco Lacava
Opera terza dello scrittore colombiano Efraim Medina Reyes (classe 1967), grazie alla quale viene collocato di diritto tra i nuovi talenti letterari.
Nonostante la raccolta di racconti Cinema Albero avesse vinto il Premio Nazionale del Racconto nel 2007, le precedenti due opere di Reyes non avevano toccato il pubblico come invece è riuscito C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo.
Il romanzo narra delle vicende di Rep (Reptile) che come un’ombra vaga e sopravvive nella Città Immobile (Cartagena), rodendosi l’anima per il suo amore perduto, una certa brava ragazza (di cui non si conosce mai il nome) fuggita assieme ad un pidocchio, lasciandolo solo con i suoi amici e la sua vita. È un romanzo autobiografico che esprime con forza il pensiero egocentrico, misantropo e misogino dell’autore-attore, il quale sviscera la propria anima senza vergogna, bagnandola di alcol, affumicandola di marijuana e stordendola con la musica, elemento sempre presente in ogni pagina dell’opera.
Salvo mostrare saltuari sprazzi di romanticismo e di dolcezza, come momenti di lucidità in un delirio costante, che si esprimono con aforismi e scene di amore così distanti dal comportamento abituale del protagonista da sembrare artefatti, e invece dimostrano la necessità assoluta (e l’incapacità) di amare ed essere amato.
Lo stile è scarno, essenziale, privo di fronzoli o artifici letterari, ma estremamente divertente. Assomiglia ad un noir di altri tempi, in cui il duro racconta telegraficamente le sue giornate ciniche e scure, prive di salvezza, ma piene di sesso, droga e musica. Il romanzo è composto da capitoli brevi, ognuno dei quali è accompagnato da una indicazione di luogo (Interno Notte, Interno Giorno ecc.); il titolo del capitolo è il sottofondo musicale da ascoltare (Sex Pistols e Nirvana su tutti, ma anche Grateful Dead, Prince e Deep Purple). La scrittura ricorda molto le sceneggiature cinematografiche, sia nei tempi usati, che nello svolgimento dell’azione e nei dialoghi dei personaggi. A dimostrare la cinematograficità del testo, sono presenti all’interno del corpus, due soggetti ed un dialogo, e non è un caso, perché Reyes lavora sia per il teatro che per il cinema e la televisione colombiana. La sua scrittura scivola addosso come un bicchiere di rum lasciando solchi pesanti dentro l’anima. Reyes esalta Bukowski quale grande artista, e tra i due è possibile trovare una somiglianza, ma mentre nello scrittore newyorchese è possibile rintracciare una delicatezza anche nella più sordida pulsione umana, Reyes invece resta impetuoso e feroce, privo di riscatti e sempre uguale a sé stesso.
Di contro odia spudoratamente Garbiel Garcia Marquez e i suoi strali contro il compatriota Premio Nobel lo hanno reso famoso in tutto il mondo. Celebre è l’intervista durante la quale, oltre a scagliarsi contro lo scrittore, Reyes afferma di essere in grado di superare Marquez, dimostrando la sua superiorità letteraria. Ma non vi è traccia di realismo magico nelle pagine di Reyes: tutto è realmente banale, sporco e vero, non vi sono eccessi o surrealismi, eppure le situazioni e i personaggi (per quanto veri) appaiono assurdi e colorati come solo la letteratura sudamericana riesce a dipingere.
Da cercare e gustare rigorosamente con un bicchiere di rum in mano e ascoltando i pezzi scelti dall’artista in sottofondo.
Voto: 8/10